DRAGON TRAINER paradigma d’identità protesica

Scaracchio: “Se vuoi davvero andare lì fuori a combattere i draghi, devi smetterla con tutto questo!”

Iccup: “Ma, scusa, hai appena indicato tutto me!”

S.: “Si esatto, smettila di essere te!”

I.: “Ooh, voi messere state giocando a un gioco pericoloso: tenere tutta questa rude vichingaggine”

Il maldestro e dismetrico Iccup, alle soglie della pubertà, si pone una domanda sulla propria identità: chi sono? Chi diventerò? Ce la farò a diventare un vero vichingo?

Gli è stato assegnato Scaracchio, baffuto Dragon trainer – da qui il titolo del cartone animato – che ha perso un braccio e una gamba proprio nella lotta contro i draghi.

Riuscirà Iccup ad affermarsi e seguire le orme del padre? Suo padre X è un vero guerriero, imponente e statuario capo villaggio, valoroso nella principale attività collettiva: la lotta contro i draghi che infestano e minacciano il territorio.

Chi sono io? Sono io? Vorrei essere io cioè…, o almeno come lui. Ma come si fa a esser io come se…fossi lui?

Alle domande sull’identità e sulla scelta delle figure di identificazione fa seguito il dannoso tentativo di cattura di una Furia buia, un esemplare della specie più feroce e misteriosa di draghi. Iccup stringe amicizia con Sdentato, la Furia buia che non può più volare dopo che il ragazzo gli ha provocato la perdita di una pinna direzionale della coda. Iccup gli costruisce una protesi in legno e cuoio che permette a Sdentato di spiccare di nuovo il volo. Analogo destino toccherà a lui dopo aver contribuito a cambiare mentalità e identità al villaggio. Una parziale identificazione finirà con l’assimilarlo al suo dragon-trainer, Scaracchio, il sagace vichingo mutilato e felicemente protesizzato, piuttosto che al padre inarrivabilmente integro e potente capo tribù.

Anche un semplice cartoon ci rivela elementi puntuali sulla struttura del soggetto nella contemporaneità post-moderna. Ciascuno è portatore di handicap e portatore di protesi. Anche se non accetta la mancanza, anche se non se ne rende conto.

“Come siamo fatti” è detto dalla trama di un film d’animazione che cattura e sfugge al contempo, incuriosisce e inquieta, ma insieme con l’angoscia viene rimosso il senso universale dell’essere.  Il senso è racchiuso nell’oggetto protesico, così recondito, perché ci appartiene. Non lo vediamo perché –come gli occhiali che Pessoa chiede in punto di morte – è sulla punta del naso, oppure è già lì al piede, sulla mano, tutore o arto artificiale. Un’estremità ma pur sempre la nostra, un polpastrello, una provincia dell’impero che noi siamo, ma sulla quale non rinunciamo alla sovranità.