Un Aufhebung che ci tiene ancorati alla tradizione di pensiero freudiana – transitata da Paul Valéry a Joyce a Beckett fino a Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi – ci invita a considerare il disagio dei soggetti cui oggi è possibile dare risposte con metodi medici e biologici. Eppure l’attuale fase storica richiede l’assunzione di saperi molteplici e la ricerca di compatibilità che non sono immediate nè automatiche.
L’ideale sarebbe che fosse un filosofo, un architetto, un poeta o uno psicoanalista a leggere gli esami diagnostici e a decidere se e quale terapia, magari psicofarmacologica, proporre.
Sappiamo che ciò non è possibile – lo era nella tradizione cinquecentesca dove l’alter Ego di Giordano Bruno, Zenone medico esperto in alchimia e magia bianca, si prendeva cura dei soggetti e delle comunità – e forse non lo sarà più ormai.
Ma almeno pretendiamo di guadagnare al sapere comune una distinzione tra protesi e dispositivo cibernetico che sia un paradigma di riferimento per l’antropologia e le scienze di cura dello psichico (e del corpo). Progressiva acquisizione di una gradualità nel profilo universale delle discipline e delle pratiche che oggi sembrano arricchite dalla tecnologia avanzata, mentre ne sono confuse, lasciando i soggetti in balia di sofferenze incomprensibili e intrattabili.
Nei post è possibile trovare un esempio minimo – tratto da un cartoon – di discernimento tra l’identità protesica e altre configurazioni che la tecnologia impone al soggetto per la sua sopravvivenza.