DRAGON TRAINER paradigma d’identità protesica

Scaracchio: “Se vuoi davvero andare lì fuori a combattere i draghi, devi smetterla con tutto questo!”

Iccup: “Ma, scusa, hai appena indicato tutto me!”

S.: “Si esatto, smettila di essere te!”

I.: “Ooh, voi messere state giocando a un gioco pericoloso: tenere tutta questa rude vichingaggine”

Il maldestro e dismetrico Iccup, alle soglie della pubertà, si pone una domanda sulla propria identità: chi sono? Chi diventerò? Ce la farò a diventare un vero vichingo?

Gli è stato assegnato Scaracchio, baffuto Dragon trainer – da qui il titolo del cartone animato – che ha perso un braccio e una gamba proprio nella lotta contro i draghi.

Riuscirà Iccup ad affermarsi e seguire le orme del padre? Suo padre X è un vero guerriero, imponente e statuario capo villaggio, valoroso nella principale attività collettiva: la lotta contro i draghi che infestano e minacciano il territorio.

Chi sono io? Sono io? Vorrei essere io cioè…, o almeno come lui. Ma come si fa a esser io come se…fossi lui?

Alle domande sull’identità e sulla scelta delle figure di identificazione fa seguito il dannoso tentativo di cattura di una Furia buia, un esemplare della specie più feroce e misteriosa di draghi. Iccup stringe amicizia con Sdentato, la Furia buia che non può più volare dopo che il ragazzo gli ha provocato la perdita di una pinna direzionale della coda. Iccup gli costruisce una protesi in legno e cuoio che permette a Sdentato di spiccare di nuovo il volo. Analogo destino toccherà a lui dopo aver contribuito a cambiare mentalità e identità al villaggio. Una parziale identificazione finirà con l’assimilarlo al suo dragon-trainer, Scaracchio, il sagace vichingo mutilato e felicemente protesizzato, piuttosto che al padre inarrivabilmente integro e potente capo tribù.

Anche un semplice cartoon ci rivela elementi puntuali sulla struttura del soggetto nella contemporaneità post-moderna. Ciascuno è portatore di handicap e portatore di protesi. Anche se non accetta la mancanza, anche se non se ne rende conto.

“Come siamo fatti” è detto dalla trama di un film d’animazione che cattura e sfugge al contempo, incuriosisce e inquieta, ma insieme con l’angoscia viene rimosso il senso universale dell’essere.  Il senso è racchiuso nell’oggetto protesico, così recondito, perché ci appartiene. Non lo vediamo perché –come gli occhiali che Pessoa chiede in punto di morte – è sulla punta del naso, oppure è già lì al piede, sulla mano, tutore o arto artificiale. Un’estremità ma pur sempre la nostra, un polpastrello, una provincia dell’impero che noi siamo, ma sulla quale non rinunciamo alla sovranità.

LOGICHE E PROCEDURE DELLA CONSULENZA PSICHIATRICO/PSICOLOGICA IN MEDICINA ESTETICA

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Estratto del capitolo pubblicato su “Trattato di Medicina Estetica” di A. IOSSA FASANO, A. PIGNATARO, S. TOTO


“Sono solo i superficiali a non giudicare dalle apparenze”

Oscar wilde

L’immagine corporea, dalla science fiction alla scienza medica e psicologica,  si afferma oggi in uno scenario di epocale svolta che si cercherà qui di delineare, sviluppando le conseguenti riflessioni sulle condotte pratiche che gli specialisti in Medicina Estetica possono adottare.

In cosa consiste la svolta epocale? Nel passaggio dell’identità umana da una condizione protesica a una configurazione cyborg. Transizione al contempo drammatica (traumatica) e affascinante (coinvolgente e sconvolgente) con cui ciascun soggetto – il medico come il paziente – si trova a fare i conti.  Un apparato psichico (nell’accezione di psiche o di mente) lavora in parallelo allo sviluppo di abilità motorie, delle relative rappresentazioni e delle trasformazioni che le interazioni producono. Verrà qui posta particolare attenzione alle forme esteriori del soma e alle azioni rivolte ad agire su di esse.

L’osservazione del soggetto umano e delle relazioni che stabilisce con l’ambiente esterno va estesa ai dispositivi che utilizza o di cui dispone. E’ possibile finalmente pensare a un apparato psichico che non sia metafisico, né invisibile, né interno, ma che sia proteso nell’ambiente e interagente nello spazio materiale. L’organismo fisico diviene il primo stadio in cui la psiche stabilisce un collegamento tangibile e regolabile, grazie ad ausili protesici, con varie dimensioni e mondi.  Mentre si immaginava la psiche come qualcosa di etereo e di immateriale, ecco il rovesciamento di posizioni per cui è proprio l’ausilio protesico a rinviare all’apparato psichico e si afferma l’idea che non ci sia psiche se non laddove ci sia un senso di mancanza che faccia appello alla protesi. Dunque identità protesica come fondamento di un soggetto pensante e portatore di passione. Il nesso che unifica mente e corpo va individuato negli oggetti, utili e inutili, di cui l’uomo si circonda, alcuni dei quali si innestano direttamente sugli organi sensori e motori (pensiamo da un lato agli occhiali, alla dentiera, all’apparecchio acustico, all’arto meccanico, alla cosmetica e dall’altro a un orizzonte molto avanzato come il ricorso alla farmacologia di sintesi, ai trapianti d’organo e alla chirurgia estetica o ricostruttiva).

Come soggetti moderni siamo insediati in una condizione psico-fisica di ordine protesico, ma la post-modernità contemporanea ci costringe all’ibridazione con strumenti tecnologici di tipo cibernetico che oltrepassano le nostre facoltà percettive e sfuggono alle ordinarie capacità di rappresentazione: sopravviviamo al prezzo di non riconoscerci. Rispetto al componente cibernetico e alla conseguente configurazione cyborg ci sembra di accettare consapevolmente qualcosa che, invece, scompagina le fondamenta del nostro essere e del modo in cui rappresentiamo il corpo proprio e altrui. Mutano i modi di soffrire e di ammalarsi, devono aggiornarsi i metodi per curarli. L’arte di ritoccare il corpo aveva una sua importanza già nel Cinquecento, per riparare ferite da guerra o asportare tumori: il suo uso era circoscritto a una finalità puramente ricostruttiva; oggi il più delle volte la ricostruzione viene effettuata per un piacere estetico piuttosto che per una reale necessità e le motivazioni che spingono alla scelta di rivolgersi ad un medico estetico, secondo la letteratura analizzata in merito, sono prevalentemente psicologiche.

La Medicina Estetica nella contemporaneità nasce dall’intuizione che l’uomo è sano solo quando è in armonia con le differenti fasi della vita, con il proprio inserimento sociale e ambientale. Oggi la medicina è sempre più sollecitata da pazienti che chiedono di migliorare il proprio aspetto, l’equilibrio e l’armonia complessiva per una ricerca di sicurezza personale, ma anche una necessità professionale o un’esigenza spirituale.   Si tratta, dunque, di collocare la Medicina Estetica nell’area più appropriata all’interno di una necessariamente nuova concettualizzazione del: “Chi siamo? Chi sono? Come e di cosa è fatta la mia identità? Io, in quanto medico, quale identità contribuisco a costruire nell’altro?” Un risultato ottimale può essere realizzato grazie al coordinamento e all’integrazione delle più diverse attività specialistiche, dunque attuando una collaborazione multidisciplinare avvalendosi di tutte le acquisizioni della medicina generale, delle conoscenze delle scienze esatte, della chirurgia e di alcune specializzazioni (medicina interna, endocrinologia, dietologia, dermatologia, angiologia, ortopedia, fisiatria, chirurgia plastica…), e degli apporti di numerose discipline umane tra le quali la psicologia, l’antropologia e la filosofia. Per agire a tutto campo, rispettando la qualità della vita, dunque interpretando al meglio quanto l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dichiara da anni “la salute deve essere considerata non come assenza di malattia ma come benessere psicofisico”, essa deve interagire con individui sani, armonici, che vivano compiutamente la propria età e sappiano riconoscersi e accettarsi, che lavorino con impegno per migliorarsi e riescano a stimarsi ed amarsi di più. Questa è la filosofia alla quale dovrebbe essere educato chi si rivolge alla Medicina Estetica.  La Psicologia e Psichiatria sono intimamente correlate alla Medicina Estetica se si accetta l’assunto epistemologico di un’unità mente-corpo.  Lo “scalpello” di cui il medico si serve per i suoi interventi di correzione estetica, non modifica soltanto l’aspetto fisico di una persona, ma ne cambia anche l’animo, l’immagine che questo individuo ha di se stesso, l’identità che fino a quel momento si era costruito. L’immagine dell’ “io” è una sorta di ritratto mentale che ciascuno ha di se stesso e questo ritratto è costruito in base alle personali esperienze passate e all’aspetto del corpo così come viene percepito dal singolo e come si pensa che lo riconoscano gli altri. Questa immagine dell’io condiziona inevitabilmente il nostro modo di essere e di rapportarci con l’esterno e di questa situazione il medico estetico deve tenere conto, non solo per aiutare il paziente a comprendere quelle eventuali “cicatrici emotive” che sono spesso alla radice della richiesta di una correzione medico-chirurgica, ma anche per valutare modi e tempi dell’intervento.

COME LA PROTESI E L’ACQUISIZIONE DELL’IDENTITA’ PROTESICA CONTRIBUISCONO ALLA COSTRUZIONE DELLA MENTE E DEL “MENTALE”

Il soggetto umano non è la somma di un corpo animale e di una mente astratta (anima, spirito, Seele), ma è il punto di connessione tra natura e cultura, tra l’infinita ripetizione istintuale e l’accettazione di un limite negoziato e condiviso con l’altro sociale.
Rovesciando ed estremizzando questo assunto possiamo sostenere che non c’è mente umana se non dove c’è protesi e sua accettazione integrata nello schema corporeo e nei comportamenti. La rappresentazione di sé e delle relazioni con l’esterno non può prescindere dalla protesi, piuttosto si appoggia all’identità protesica per fondare struttura e funzioni della mente. L’atto di umiltà nel rinunciare all’autosufficienza, all’autarchia sensoria e motoria, ridisegna i confini dell’umano e ne valorizza risorse e possibilità.
Viceversa non bisogna nemmeno affidarsi all’estremo opposto, specie in epoca di tecnologia informatica e di cibernetica, con un implicito del tipo: ci pensa la protesi. Essa sente, processa il percepito e opera. La delega al cervello elettronico realizza il chiasmo per cui la macchina si avvicina all’umano fino ad assimilarvisi e l’uomo si fa macchina, deposti i limiti che emozione e affetto gli impongono. L’ausilio che si sostituisce al corpo lavora in sua vece e, animandosi, lo disanima e lo disattiva. Paradossalmente troppa protesi priva il soggetto della sua identità protesica, protesi fuori misura vampirizza e spolia il soggetto anche se non sono in questione la (sua) anima e la (sua) natura
La protesi conferisce identità protesica se lavora nei limiti della funzione regolativa, l’alienazione (il sopravvento dell’angoscia) deriva dalla perdita del limite, della regola più che della sola funzione regolativa. Liquefazione o evaporazione irreversibili sono generate dall’invasione colonizzatrice del suo corpo nudo.
Un terzo caso si registra quando il soggetto, in determinate circostanze, si fa protesi, si presta o si offre, lasciandosi strumentalizzare. In questi casi si verifica un rovesciamento dello schema e un sovvertimento del funzionamento individuale e collettivo. Pensiamo a relazioni interpersonali di succubanza e asservimento (non pensiero), senza spingersi a modalità sado-maso, oppure a relazioni di aiuto e di servizio in cui il care-giver viene usato come automa e non riconosciuto nella sua pienezza di libertà e diritti individuali.

Il pensiero si struttura secondo un processo formativo non solamente verbale

BRANO TRATTO DA Il colorepensiero del soggetto psicotico in Ambulatorio/Il piccolo Hans N° 1/1999, Moretti & Vitali, Bergamo.

Marco, dodicenne, va male a scuola: è indisciplinato, scadente nel profitto e, nonostante l’insegnante di sostegno e le cure psicologiche, ne combina di tutti i colori. Molteplici sono le difficoltà che hanno incontrato genitori, educatori e terapeuti nel comprenderlo e nell’aiutarlo.

Dopo due anni e mezzo di psicoterapia, al posto di un paventato esordio schizofrenico, Marco muta stile di relazione e parla degli interessi che concretamente coltiva: giardinaggio e orticoltura, astronomia, personal computer e soprattutto l’arte figurativa moderna. Viene attratto dalla possibilità con due “sbaffi” o tre segni di comporre quadri del valore di decine di milioni.

Lui, così segnato da traumatismi comincia a pensare che quei segni possono non attaccare l’apparato psichico, né depositarsi più sul suo corpo o su quello altrui, ma sulla tela attraverso tecniche raffinate e consapevoli.

In seduta si dicono poche ma essenziali parole, si disegna e si dipinge, nessuna interpretazione. Il terapeuta osserva l’aprirsi di Marco alle forme della natura: piante, animali, costellazioni in rapporto a cui reperire le coordinate della propria posizione nel mondo e in un contesto civilizzato che Marco va ormai riconoscendo, ma che ancora non riserva un posto per lui.

La terapia analitica, che comincia a dare i primi frutti, gli consente di scongiurare la deriva psicotica: si tratterà di comporre il disegno del progetto attraverso cui conferire forma alla propria esistenza soggettiva, realizzarne realmente la costruzione e riuscire finalmente ad abitarla.

A distanza di dieci anni dal termine del trattamento, Marco fluttua tra una regione del Centro-Italia e la casa dei suoi….

UN INCESTUOSO CHE MANGIA E UNO CHE NON MANGIA: IL CIBO IN CENTRO CITTA’ E LA BIBLIOTECA SOMMERSA

ARTICOLOPUBBLICATO SU IL PICCOLO HANS  83-84

Riviere, / bastano pochi stocchi d’erbaspada / penduli da un ciglione / sul delirio del mare; / o due camelie pallide nei giardini deserti, / e un eucalipto biondo che si tuffi / tra sfrusci e pazzi voli / nella luce…

E. Montale

 

 

Fa la cameriera in un villaggio turistico che più volte ricorrerà nei suoi sogni, è addetta a servire nei poco frequentati tavoli periferici del ristorante all’aperto.

Nell’analisi intrapresa poco oltre una selva di dietologi, dermatologi e ginecologi, Xenia, un’adolescente di 17 anni, si interroga sulla scomparsa del ciclo mestruale e sui violenti accessi di fame in rapporto con l’essere al centro dell’attenzione, degli sguardi, di un dato luogo e, come vedremo, della città.

E’ nel letto dei genitori “dove” (1) nota sulla propria pelle delle macchie che un pensiero del sogno attribuisce all’esposizione al sole. Al risveglio le viene in mente la parola “pedagogia”.

Associando scopre che il walk-man le serve non tanto ad ascoltare musica quanto a ripararsi, girando in città, dai commenti degli uomini al cui centro si sente posta. Ma come fare a ripararsi, a non ascoltare i seducenti consigli di “cura” di amiche ed esperti?

Il sogno ha lavorato riconducendo la causa delle macchie sulla pelle alla loro fonte: i raggi paterni. Eppure non può esserci discorso altrui – la pedagogia delle terapie mediche o delle psicoterapie confezionate ad hoc per l’adolescenza – a esprimere questa verità.

La concretezza carnea in un’atmosfera da “pane selvaggio” e la materialità di fatti e sintomi si tramutano nella forma macchia. La sua pelle appare come il lenzuolo del letto matrimoniale dei genitori. Non è questione di viscere ma di superficie epidermica dove passa, disegnandosi, il discorso analitico; è lì che si traducono i termini della sua condizione di malessere. Ora diviene possibile smettere di ascoltare musica, amiche ed esperti.

Si trova su di un aereo al centro del quale c’è un suo compagno di corso che fa da modello; per disegnarlo in sogno deve avvicinarsi ma c’è un errore e non riesce a “riprenderlo”. Si alza e, piuttosto che osservarlo meglio, lancia attraverso una fessura una bottiglia che in seduta interpreta come simbolo di alcolismo.

Alle prese con una conflittualità già sul terreno (o è in volo?) genitale che si esprime in chiari termini alimentari, deve sbarazzarsi del rischio, nient’affatto scongiurato, di un vizio tossicomanico/anoressico (la bottiglia) cui la sua grande abilità nel disegno la espone con l’eliminare “ogni separazione tra sapere e agire” (2).

Il prezzo sembra alto: solo se l’abilità viene meno il vizio può essere abbandonato. Non riuscire a “riprendere” il modello al centro dell’aereo assume un doppio significato: un inciampo nel saper fare, nel ritrarlo (nel riprenderlo come con una cinepresa) e, ciò che è dello stesso ordine, evitare di ricalcare il modello di sua madre, la quale aveva chiesto alla propria madre di aiutare  finanziariamente il genero, futuro padre di Xenia, senza esigere da lei prestiti in favore del suo fidanzato.

La mancata rimozione nel saper disegnare, scelto come professione, può aver comportato particolare sensibilità in Xenia alle tematiche del rapporto inconscio tra cibo e figura paterna, senza d’altro canto precludere altre rimozioni foriere di costruzioni simboliche.

VIRGINIA WOOLF E WILLEM DE KOONING: IL RICORDO IN PITTURA E IN LETTERATURA

“L’inesplicabile fenomeno della coscienza sorgerebbe nel sistema percettivo al posto delle tracce mestiche”

S. Freud, Nota sul “notes magico”

Cos’è la memoria e come funziona?

La memoria, anzi le memorie hanno a che fare con la ricca e stratificata materia delle fasi formative del soggetto, dell’esperienza che si struttura in rapporto alle figure primarie: genitori, fratelli o pari, familiari (zii, nonni, cugini), baby-sitter e insegnanti.

La memoria non può prescindere dalle vicende che il soggetto assorbe e su cui cerca di regolarsi e di slegarsi. Funzioni e disfunzionamento delle memorie bio-esistenziali sono in rapporto con le interazioni: quanto il soggetto ha patito o come ha saputo sviluppare una posizione attiva rispetto al dolore, alla paura, alla morte.

La memoria non attiene all’invisibile, all’immateriale o all’ineffabile.  E’ legata solo poco e nel suo farsi iniziale alla percezione. Le memorie intrattengono nessi con la rappresentazione: il corticale si lega all’esterno. Ma non è materia di razionalità neutra e indistinta. Le numerose sedi corticali raccolgono l’irradiazione dei centri sottocorticali: sistema limbico, amigdala e ippocampo. Il nostro Sistema Nervoso Centrale è capace di un’integrazione che dobbiamo saper riconoscere e riprodurre nel trattamento.

Non c’è mistero, ineffabile, indicibile, nella memoria c’è traccia e per giunta lavorata, complessa, sistemica, segnica. Traducibile, perdonabile direbbe Bruno Moroncini.

MARIA E LA TERRA NATIA

img_02793 Cremona, maggio 2006,

Maria Callegaro Perozzo e uno dei suoi capolavori “La terra natia” (Vedi nel volume “Longevi Visionari, Skira, 2006”).

Qui sono nata, qui attraverso il lavoro pittorico sono rinata. Vi indico il luogo, il metodo, la mappa…

Readiness is all, tanti i passaggi di esperienza da Amleto a Lear. Ovvero di come a 87 anni si trasmette un sapere, si

rappresenta una posizione rispetto all’origine, si avanza una proposta di “ri-vita”.

PER UNA CULTURA DELLA CURA IN ADOLESCENZA (e di un ascolto ispirato)

Un estratto dell’articolo dalla rivista Il piccolo Hans- Il Cefalopodo n° 2 /1996

Il volume fu presentato da Sergio Finzi, Enrico Ghezzi, Gabriele Frasca e da Augusto Iossa presso il Duomo Center di Milano il 21 marzo 1996

ANITA, ANNI QUATTORDICI, Un caso di isteria traumatica

Di solito il caso dell’adolescente conferma l’affermazione per cui il trauma giunge inavvertito: silenzioso e invisibile. Non lo avverte il soggetto che ne è vittima, accusando poi sofferenze inspiegabili, non lo avvertono i terapeuti, gli educatori o i genitori che ne sono, o ne sono stati, anch’essi esposti.

Anita, non ancora quindicenne, ingerisce un limitato numero di compresse di farmaci trovate nella casa in cui vive con la madre separata. Dopo un paio di giorni di osservazione accetta, senza molta convinzione, una fase di valutazione individuale con lo psicoterapeuta.

Fino ad allora era apparsa serena, a tratti spensierata, socievole e ben adattata: niente che sembrasse giustificare l’ingerimento delle pastiglie.

Nel corso della psicoterapia emerge il persistente conflitto tra i genitori che ancora la utilizzano strumentalmente coinvolgendola in contrasti a lei estranei e la difficoltà nella regolazione delle distanze da un padre pressante e geloso.

Le sedute sono spesso arricchite dal racconto dei sogni e dalle associazioni alle quali giunge grazie anche all’aiuto dell’analista. Le quote di angoscia sono rilevanti, ma Anita non intende lasciarsi sfuggire l’occasione per regolare i conti con se stessa e con il proprio passato.

L’adolescenza si configura come un portato di traumatismi, reali e fantasmatici, che vanno trattati:  il trauma da lei subito rischia di instaurare una pericolosa modalità di “apprendere dal trauma”. Nel suo trattamento il lavoro onirico riconduce l’angoscia, posizionandola nel contesto traumatico delle proprie vicende.

La terapia le ha consentito di procedere nell’elaborazione di una separazione tra i genitori e dai genitori che si è giocata sul piano antropologico e psicoanalitico.

ADOLESCENTI: ACCOGLIENZA ANALITICA PRIMA DI TERAPIA MEDICALE

Come regolarsi dinanzi al disagio dei ragazzi. Strumenti di comprensione del disagio adolescenziale per genitori ed educatori.

Oggi l’adolescenza è precoce e protratta al contempo. Invade l’età di latenza (dai sei agli undici anni) e si protrae indefinitamente nella maturità (trenta? trentacinque? cinquanta?). Anticipa l’apertura dei canali di contatto e comunicazione con il mondo adulto, non accetta provvidenziali scansioni o rifiuti alla Bartleby…”preferirei di no”. La vocazione curativa del medico si trova a mal partito dinanzi a testimonianze dei genitori che chiedono un aiuto per i disagi scolastici che emergono già nella scuola media inferiore. Le scienze dello psichico hanno difficoltà a concepire il rapporto con l’ambiente tecnologico e con i supporti ausiliari di tipo sensorio, per la memoria e l’apprendimento. Le opportunità di strutturazione e arricchimento del soggetto, provenienti dalla tecnologia e dai media visivi, si trasformano in boomerang, provocando dipendenza, indebolimento e conflitti. A volte l’accoglienza dei genitori e degli insegnanti, dei loro racconti e testimonianze, può esser sufficiente a fornire indicazioni che aprono spiragli di sollievo individuale e di convivenza, senza coinvolgere direttamente l’adolescente. Uno sguardo antropologico e filosofico che informi la consulenza analitica e restituisca valore al singolo, al suo pensiero, al suo percorso, costituisce un segnale di speranza e un indicatore significativo anche per le neuroscienze.

Anton Cechov: “Tre sorelle”, pubblicato nel 1899, anno decisivo anche per la psicoanalisi freudiana

Il 1899 è un anno decisivo per la psicoanalisi, ma è anche l’anno in cui Anton Cechov pubblica “Tre sorelle”

La donna, la guerra e il domani in “Tre sorelle” (1899) di Anton Cechov.

Augusto Iossa Fasano

Maša: Per me l’uomo deve avere una fede, o cercarsela, se no la sua vita è vuota… vivere e non sapere perché volano le gru, perchè nascono i bambini, perché ci sono le stelle… O si sa perchè si vive, o è uno scherzo idiota… Veršinin: Il guaio è che la gioventù se n’è andata; questa è la verità…   Maša: Diceva Gogol: triste signori miei, vivere a questo mondo!

Tuzenbach: E io dico: faticoso, signori miei, ragionare con voi, anzi, impossibile…

Čebutkin: (leggendo il giornale) Balzac si sposò a Berdičev. Questa me la voglio scrivere. Balzac si sposò a Berdičev.  Irina (dispone il solitario, pensosa): Balzac si sposò a Berdičev.

A metà del secondo atto di “Tre sorelle”, scritto nel 1899, la conversazione langue proprio a proposito del senso della vita ed ecco fulmineo, buffo e geniale il riferimento che, sovrappensiero, tre volte ricorre del “Balzac si sposò a Berdičev”.

Il sapere, tema che in Cechov è abbinato all’amore e alla vita pratica, riguarda il destino e si annida nei dettagli del quotidiano. Nella vita quotidiana non c’è solo psicopatologia, da cui pure “si parte”: nervosismo, malumore, inquietudine, difficoltà finanziarie, angosce per il futuro. La figura della donna (di cui ciascuna delle tre sorelle reca qualità e potenzialità proprio all’interno di limiti e nevrosi) si rivela decisiva in quanto scaturigine di pensiero e di riscatto. Il sapere ufficiale, il lavoro e lo studio, privi di una cura “accurata” dei particolari dell’esistenza in casa, nel matrimonio, nelle relazioni personali e pubbliche, non hanno senso nè utilità.

Curiosamente questa dimensione viene ignorata e almeno fino al ‘600 rimane ai margini dell’arte e risulta indifferente alla scienza, psicoanalisi compresa. Il mondo presente nell’opera di Cechov risulta all’apparenza banalmente familiare e noto, eppure è dotato di una perturbante estraneità: non sospettavamo che ci apparisse tanto lontana, ignota e inesplorata una zona così interiore, così nostra.

Le puntuali ambientazioni geo-topografiche dei racconti e il situare in un contesto architettonico preciso i personaggi del suo teatro ci danno una misura dell’esattezza scientifica con cui Cechov delinea la struttura psichica di ciascun soggetto che non ha nulla di psicologistico o di intimistico (le sue rappresentazioni sono prive di quell’arbitrio auto-referenziale che l’ideologia tecnicistica di discipline quali medicina e psicologia già dalla fine dell’800 dettavano e oggi ci impongono sempre più) ma viene di continuo cimentata con le coordinate materiali(stiche) dell’esistenza individuale e collettiva: pur con accenti critici o ironici in tutta la sua opera compaiono le istituzioni come la municipalità, la scuola, gli ospedali, la vita matrimoniale con l’aggiunta/precisazione che: “La vita bisogna rappresentarla non così com’è, e nemmeno come deve essere, ma come ci appare nei sogni” .

Il matrimonio e le figure della clinica: Psicosi, Nevrosi, Perversione.

Le figure femminili del dramma sono quattro: oltre alle tre sorelle andrà analizzata anche quella di Natasa, moglie di Andrej, che fa loro da contrappunto.

Le tre sorelle stanno a rappresentare, in quanto figlie di un generale dell’esercito, una delle principali tematiche dell’opera: il rapporto tra la continuità della vita (il generare figli) e il dissolversi, spinta all’annientamento e alla distruzione presente nel soggetto che, nel prevalere, determina i tipici “destini cechoviani”. Nessuna delle tre sorelle ha sposato un militare e l’unico soldato sposato, il capitano Versinin, ha una vita coniugale infelice: ”Quando rinasco non prendo moglie. No, no, non la prendo più”. Dunque la questione del matrimonio – in quanto istituzione esterna e dato psichico – non può essere elusa nè liquidata, salvo metempsicosi.

Matrimonio e guerra fanno sì che le tre sorelle si tengano a una cauta distanza dalle varie figure di soldato. E’ a partire da questi sintomi di inibizione nevrotica della donna (paura ma anche cimento) che la guerra fa problema e diverrà, chissà, forse possibile individuare forme di disagio della civiltà che consentano di intraprendere consapevolezza e riequilibrio per l’individuo e la società.

Curiosamente Natasa sposa Andrej il quale nel secondo atto ammetterà: “Non bisogna sposarsi, sposarsi è una malinconia”. Andrej ha rinunciato alla carriera militare a favore di quella illusoriamente accademica e Nataša elude la contraddizione amore/guerra, scavalcandola perchè troppo interessata a praticare (piuttosto che a farla propria o indurre a rifletterci) azioni di conquista brutale e sbrigativa (di natura bellica) nella vita privata.

Descrizioni tanto rigorose del profilo soggettivo di ciascun personaggio – Cechov è un testimone attendibile della vita – consentono l’operazione di assegnare le quattro figure femminili alle tre tipologie di struttura psichica: psicosi, nevrosi, perversione.

Nessuna delle quattro donne appartiene alla psicosi (malattia mentale) nel senso in cui lo è, strutturalmente, l’Ivan Dmitric di Reparto 6 o lo diventerà il dott. Andréi Jefimic provenendo da una condizione di nevrosi.

Olga e Irina pagano il prezzo di un adattamento normale e perciò nevrotico alla realtà e alla vita sociale attraverso un grado di inibizione per ciascuna diverso che a Olga, prima sorella e rigida portatrice della tradizione paterna e familiare, depositaria di ricordi che la immobilizzano, impedisce di amare e di sposarsi e che obbliga Irina, terza delle sorelle, ad aderire, passiva e ingenua, alle illusioni nutrite dalla sorella maggiore risolvendosi per una non-scelta: il matrimonio con il barone Tuzenbach che non ama. Ripiego che la mette al riparo dal cedere a un personaggio, Solenyj, perfetto esempio della terza categoria psichica, la più temibile: la perversione. Solenyj, il quale inibito non è, adempirà al suo proposito:”Giuro su quel che ho di più sacro: un rivale lo ammazzo… Com’è bella!”.

Il perverso (in senso strutturale può definirsi tale anche colui che non manifesta alcuna deviazione sessuale) non ha dubbi dinanzi alla sua meta, nè inceppi nè impacci, egli non esita a strumentalizzare l’altro o a disfarsene come accade a Natasa che pure potremmo annettere a questa categoria.

Masa possiede tendenze perverse e incestuose ma anche per lei la struttura psichica è quella della nevrosi.

Le tre protagoniste provano sentimenti, sopportano angosce e attese con piena umanità, posseggono un mondo vivo e vario, eppure Olga non riesce a vivere il presente, Irina non ricorda il passato, Masa non vivrà il suo amore in futuro.

La cosa di maggior interesse è come Cechov riesca a far funzionare le tre sorelle nel loro insieme, quasi accomunate da un’unica missione che non è solo la propria sopravvivenza: nessuna di loro ha figli, ma salvare qualcosa del mondo da cui provengono e, al contempo, riuscire ad andare avanti, altrove: a Mosca, lontano da dove la milizia del padre le ha condotte, poter immaginare un domani, di più, costruire un avvenire per tutti.

Esse sanno, credono pervicacemente.

Al contrario Andrej ha figli/o ed ha tentato di emanciparsi dal modello paterno ma non gli è bastato l’unico scarto compiuto nel campo della scelta professionale, altra da quella militare paterna, su cui non ha insistito forse perchè privo di un supporto adatto, un fratello, un mentore, un ideale concreto mentre gli si rivela pernicioso Ferapont.

(segue)


V. Cechov, Teatro, Oscar Mondadori, Mi1ano, 1982, Introduzione p.XVI: “Non è così che le ragazze scelgono la rivoluzione…” gli obiettò lo scrittore Veresaev, vicino ai movimenti rivoluzionari, a proposito del racconto La fidanzata, cosicchè Cechov tagliò inesorabilmente quel passaggio, perchè “non corrispondeva alla verità dei fatti e del personaggio”. Anche se “letto oggi quel brano ha in sè una sua aspra verità e diventa profezia”. Lo stesso rigore che permette a Cechov di rimproverare Tolstoj “di parlare di cose che non conosceva”. *

All’affermazione scespiriana espressa da Konstantin nel Gabbiano (v. Cechov, Teatro, 1982, Mondadori, p.11) Nina

replica: “C’è poca azione nel vostro lavoro. (…) Poi non c’è amore. Per me in un dramma ci dev’essere

assolutamente l’amore”. L’amore – al pari della guerra cui l’accomuna l’elemento del moto – sfugge al lavoro del rappresentare. I grandi e sconvolgenti movimenti che amore e guerra impongono li fanno decadere di continuo dalla sfera della rappresentazione e rientrare in quella del rimosso. Amore e guerra: corpi in movimento, corpo e movimento. E’ per questo che l’arte è chiamata incessantemente a occuparsene.

Dal Glossario in “Il Cefalopodo” 4, p.99, cito: “STRUTTURE PSICHICHE E FIGURE DELLA CLINICA: dalla scoperta del “luogo della fobia”, scelta e determinazione nella formazione delle strutture psichiche, variazioni, borderline e diversificazione dai sintomi e un’ulteriore collocazione”.

Sulla perversione si veda in Glossario, op. cit., la voce omonima, p.98.