COME LA PROTESI E L’ACQUISIZIONE DELL’IDENTITA’ PROTESICA CONTRIBUISCONO ALLA COSTRUZIONE DELLA MENTE E DEL “MENTALE”

Il soggetto umano non è la somma di un corpo animale e di una mente astratta (anima, spirito, Seele), ma è il punto di connessione tra natura e cultura, tra l’infinita ripetizione istintuale e l’accettazione di un limite negoziato e condiviso con l’altro sociale.
Rovesciando ed estremizzando questo assunto possiamo sostenere che non c’è mente umana se non dove c’è protesi e sua accettazione integrata nello schema corporeo e nei comportamenti. La rappresentazione di sé e delle relazioni con l’esterno non può prescindere dalla protesi, piuttosto si appoggia all’identità protesica per fondare struttura e funzioni della mente. L’atto di umiltà nel rinunciare all’autosufficienza, all’autarchia sensoria e motoria, ridisegna i confini dell’umano e ne valorizza risorse e possibilità.
Viceversa non bisogna nemmeno affidarsi all’estremo opposto, specie in epoca di tecnologia informatica e di cibernetica, con un implicito del tipo: ci pensa la protesi. Essa sente, processa il percepito e opera. La delega al cervello elettronico realizza il chiasmo per cui la macchina si avvicina all’umano fino ad assimilarvisi e l’uomo si fa macchina, deposti i limiti che emozione e affetto gli impongono. L’ausilio che si sostituisce al corpo lavora in sua vece e, animandosi, lo disanima e lo disattiva. Paradossalmente troppa protesi priva il soggetto della sua identità protesica, protesi fuori misura vampirizza e spolia il soggetto anche se non sono in questione la (sua) anima e la (sua) natura
La protesi conferisce identità protesica se lavora nei limiti della funzione regolativa, l’alienazione (il sopravvento dell’angoscia) deriva dalla perdita del limite, della regola più che della sola funzione regolativa. Liquefazione o evaporazione irreversibili sono generate dall’invasione colonizzatrice del suo corpo nudo.
Un terzo caso si registra quando il soggetto, in determinate circostanze, si fa protesi, si presta o si offre, lasciandosi strumentalizzare. In questi casi si verifica un rovesciamento dello schema e un sovvertimento del funzionamento individuale e collettivo. Pensiamo a relazioni interpersonali di succubanza e asservimento (non pensiero), senza spingersi a modalità sado-maso, oppure a relazioni di aiuto e di servizio in cui il care-giver viene usato come automa e non riconosciuto nella sua pienezza di libertà e diritti individuali.

Il pensiero si struttura secondo un processo formativo non solamente verbale

BRANO TRATTO DA Il colorepensiero del soggetto psicotico in Ambulatorio/Il piccolo Hans N° 1/1999, Moretti & Vitali, Bergamo.

Marco, dodicenne, va male a scuola: è indisciplinato, scadente nel profitto e, nonostante l’insegnante di sostegno e le cure psicologiche, ne combina di tutti i colori. Molteplici sono le difficoltà che hanno incontrato genitori, educatori e terapeuti nel comprenderlo e nell’aiutarlo.

Dopo due anni e mezzo di psicoterapia, al posto di un paventato esordio schizofrenico, Marco muta stile di relazione e parla degli interessi che concretamente coltiva: giardinaggio e orticoltura, astronomia, personal computer e soprattutto l’arte figurativa moderna. Viene attratto dalla possibilità con due “sbaffi” o tre segni di comporre quadri del valore di decine di milioni.

Lui, così segnato da traumatismi comincia a pensare che quei segni possono non attaccare l’apparato psichico, né depositarsi più sul suo corpo o su quello altrui, ma sulla tela attraverso tecniche raffinate e consapevoli.

In seduta si dicono poche ma essenziali parole, si disegna e si dipinge, nessuna interpretazione. Il terapeuta osserva l’aprirsi di Marco alle forme della natura: piante, animali, costellazioni in rapporto a cui reperire le coordinate della propria posizione nel mondo e in un contesto civilizzato che Marco va ormai riconoscendo, ma che ancora non riserva un posto per lui.

La terapia analitica, che comincia a dare i primi frutti, gli consente di scongiurare la deriva psicotica: si tratterà di comporre il disegno del progetto attraverso cui conferire forma alla propria esistenza soggettiva, realizzarne realmente la costruzione e riuscire finalmente ad abitarla.

A distanza di dieci anni dal termine del trattamento, Marco fluttua tra una regione del Centro-Italia e la casa dei suoi….

UN INCESTUOSO CHE MANGIA E UNO CHE NON MANGIA: IL CIBO IN CENTRO CITTA’ E LA BIBLIOTECA SOMMERSA

ARTICOLOPUBBLICATO SU IL PICCOLO HANS  83-84

Riviere, / bastano pochi stocchi d’erbaspada / penduli da un ciglione / sul delirio del mare; / o due camelie pallide nei giardini deserti, / e un eucalipto biondo che si tuffi / tra sfrusci e pazzi voli / nella luce…

E. Montale

 

 

Fa la cameriera in un villaggio turistico che più volte ricorrerà nei suoi sogni, è addetta a servire nei poco frequentati tavoli periferici del ristorante all’aperto.

Nell’analisi intrapresa poco oltre una selva di dietologi, dermatologi e ginecologi, Xenia, un’adolescente di 17 anni, si interroga sulla scomparsa del ciclo mestruale e sui violenti accessi di fame in rapporto con l’essere al centro dell’attenzione, degli sguardi, di un dato luogo e, come vedremo, della città.

E’ nel letto dei genitori “dove” (1) nota sulla propria pelle delle macchie che un pensiero del sogno attribuisce all’esposizione al sole. Al risveglio le viene in mente la parola “pedagogia”.

Associando scopre che il walk-man le serve non tanto ad ascoltare musica quanto a ripararsi, girando in città, dai commenti degli uomini al cui centro si sente posta. Ma come fare a ripararsi, a non ascoltare i seducenti consigli di “cura” di amiche ed esperti?

Il sogno ha lavorato riconducendo la causa delle macchie sulla pelle alla loro fonte: i raggi paterni. Eppure non può esserci discorso altrui – la pedagogia delle terapie mediche o delle psicoterapie confezionate ad hoc per l’adolescenza – a esprimere questa verità.

La concretezza carnea in un’atmosfera da “pane selvaggio” e la materialità di fatti e sintomi si tramutano nella forma macchia. La sua pelle appare come il lenzuolo del letto matrimoniale dei genitori. Non è questione di viscere ma di superficie epidermica dove passa, disegnandosi, il discorso analitico; è lì che si traducono i termini della sua condizione di malessere. Ora diviene possibile smettere di ascoltare musica, amiche ed esperti.

Si trova su di un aereo al centro del quale c’è un suo compagno di corso che fa da modello; per disegnarlo in sogno deve avvicinarsi ma c’è un errore e non riesce a “riprenderlo”. Si alza e, piuttosto che osservarlo meglio, lancia attraverso una fessura una bottiglia che in seduta interpreta come simbolo di alcolismo.

Alle prese con una conflittualità già sul terreno (o è in volo?) genitale che si esprime in chiari termini alimentari, deve sbarazzarsi del rischio, nient’affatto scongiurato, di un vizio tossicomanico/anoressico (la bottiglia) cui la sua grande abilità nel disegno la espone con l’eliminare “ogni separazione tra sapere e agire” (2).

Il prezzo sembra alto: solo se l’abilità viene meno il vizio può essere abbandonato. Non riuscire a “riprendere” il modello al centro dell’aereo assume un doppio significato: un inciampo nel saper fare, nel ritrarlo (nel riprenderlo come con una cinepresa) e, ciò che è dello stesso ordine, evitare di ricalcare il modello di sua madre, la quale aveva chiesto alla propria madre di aiutare  finanziariamente il genero, futuro padre di Xenia, senza esigere da lei prestiti in favore del suo fidanzato.

La mancata rimozione nel saper disegnare, scelto come professione, può aver comportato particolare sensibilità in Xenia alle tematiche del rapporto inconscio tra cibo e figura paterna, senza d’altro canto precludere altre rimozioni foriere di costruzioni simboliche.

MARIA E LA TERRA NATIA

img_02793 Cremona, maggio 2006,

Maria Callegaro Perozzo e uno dei suoi capolavori “La terra natia” (Vedi nel volume “Longevi Visionari, Skira, 2006”).

Qui sono nata, qui attraverso il lavoro pittorico sono rinata. Vi indico il luogo, il metodo, la mappa…

Readiness is all, tanti i passaggi di esperienza da Amleto a Lear. Ovvero di come a 87 anni si trasmette un sapere, si

rappresenta una posizione rispetto all’origine, si avanza una proposta di “ri-vita”.

PER UNA CULTURA DELLA CURA IN ADOLESCENZA (e di un ascolto ispirato)

Un estratto dell’articolo dalla rivista Il piccolo Hans- Il Cefalopodo n° 2 /1996

Il volume fu presentato da Sergio Finzi, Enrico Ghezzi, Gabriele Frasca e da Augusto Iossa presso il Duomo Center di Milano il 21 marzo 1996

ANITA, ANNI QUATTORDICI, Un caso di isteria traumatica

Di solito il caso dell’adolescente conferma l’affermazione per cui il trauma giunge inavvertito: silenzioso e invisibile. Non lo avverte il soggetto che ne è vittima, accusando poi sofferenze inspiegabili, non lo avvertono i terapeuti, gli educatori o i genitori che ne sono, o ne sono stati, anch’essi esposti.

Anita, non ancora quindicenne, ingerisce un limitato numero di compresse di farmaci trovate nella casa in cui vive con la madre separata. Dopo un paio di giorni di osservazione accetta, senza molta convinzione, una fase di valutazione individuale con lo psicoterapeuta.

Fino ad allora era apparsa serena, a tratti spensierata, socievole e ben adattata: niente che sembrasse giustificare l’ingerimento delle pastiglie.

Nel corso della psicoterapia emerge il persistente conflitto tra i genitori che ancora la utilizzano strumentalmente coinvolgendola in contrasti a lei estranei e la difficoltà nella regolazione delle distanze da un padre pressante e geloso.

Le sedute sono spesso arricchite dal racconto dei sogni e dalle associazioni alle quali giunge grazie anche all’aiuto dell’analista. Le quote di angoscia sono rilevanti, ma Anita non intende lasciarsi sfuggire l’occasione per regolare i conti con se stessa e con il proprio passato.

L’adolescenza si configura come un portato di traumatismi, reali e fantasmatici, che vanno trattati:  il trauma da lei subito rischia di instaurare una pericolosa modalità di “apprendere dal trauma”. Nel suo trattamento il lavoro onirico riconduce l’angoscia, posizionandola nel contesto traumatico delle proprie vicende.

La terapia le ha consentito di procedere nell’elaborazione di una separazione tra i genitori e dai genitori che si è giocata sul piano antropologico e psicoanalitico.

ADOLESCENTI: ACCOGLIENZA ANALITICA PRIMA DI TERAPIA MEDICALE

Come regolarsi dinanzi al disagio dei ragazzi. Strumenti di comprensione del disagio adolescenziale per genitori ed educatori.

Oggi l’adolescenza è precoce e protratta al contempo. Invade l’età di latenza (dai sei agli undici anni) e si protrae indefinitamente nella maturità (trenta? trentacinque? cinquanta?). Anticipa l’apertura dei canali di contatto e comunicazione con il mondo adulto, non accetta provvidenziali scansioni o rifiuti alla Bartleby…”preferirei di no”. La vocazione curativa del medico si trova a mal partito dinanzi a testimonianze dei genitori che chiedono un aiuto per i disagi scolastici che emergono già nella scuola media inferiore. Le scienze dello psichico hanno difficoltà a concepire il rapporto con l’ambiente tecnologico e con i supporti ausiliari di tipo sensorio, per la memoria e l’apprendimento. Le opportunità di strutturazione e arricchimento del soggetto, provenienti dalla tecnologia e dai media visivi, si trasformano in boomerang, provocando dipendenza, indebolimento e conflitti. A volte l’accoglienza dei genitori e degli insegnanti, dei loro racconti e testimonianze, può esser sufficiente a fornire indicazioni che aprono spiragli di sollievo individuale e di convivenza, senza coinvolgere direttamente l’adolescente. Uno sguardo antropologico e filosofico che informi la consulenza analitica e restituisca valore al singolo, al suo pensiero, al suo percorso, costituisce un segnale di speranza e un indicatore significativo anche per le neuroscienze.

Anton Cechov: “Tre sorelle”, pubblicato nel 1899, anno decisivo anche per la psicoanalisi freudiana

Il 1899 è un anno decisivo per la psicoanalisi, ma è anche l’anno in cui Anton Cechov pubblica “Tre sorelle”

La donna, la guerra e il domani in “Tre sorelle” (1899) di Anton Cechov.

Augusto Iossa Fasano

Maša: Per me l’uomo deve avere una fede, o cercarsela, se no la sua vita è vuota… vivere e non sapere perché volano le gru, perchè nascono i bambini, perché ci sono le stelle… O si sa perchè si vive, o è uno scherzo idiota… Veršinin: Il guaio è che la gioventù se n’è andata; questa è la verità…   Maša: Diceva Gogol: triste signori miei, vivere a questo mondo!

Tuzenbach: E io dico: faticoso, signori miei, ragionare con voi, anzi, impossibile…

Čebutkin: (leggendo il giornale) Balzac si sposò a Berdičev. Questa me la voglio scrivere. Balzac si sposò a Berdičev.  Irina (dispone il solitario, pensosa): Balzac si sposò a Berdičev.

A metà del secondo atto di “Tre sorelle”, scritto nel 1899, la conversazione langue proprio a proposito del senso della vita ed ecco fulmineo, buffo e geniale il riferimento che, sovrappensiero, tre volte ricorre del “Balzac si sposò a Berdičev”.

Il sapere, tema che in Cechov è abbinato all’amore e alla vita pratica, riguarda il destino e si annida nei dettagli del quotidiano. Nella vita quotidiana non c’è solo psicopatologia, da cui pure “si parte”: nervosismo, malumore, inquietudine, difficoltà finanziarie, angosce per il futuro. La figura della donna (di cui ciascuna delle tre sorelle reca qualità e potenzialità proprio all’interno di limiti e nevrosi) si rivela decisiva in quanto scaturigine di pensiero e di riscatto. Il sapere ufficiale, il lavoro e lo studio, privi di una cura “accurata” dei particolari dell’esistenza in casa, nel matrimonio, nelle relazioni personali e pubbliche, non hanno senso nè utilità.

Curiosamente questa dimensione viene ignorata e almeno fino al ‘600 rimane ai margini dell’arte e risulta indifferente alla scienza, psicoanalisi compresa. Il mondo presente nell’opera di Cechov risulta all’apparenza banalmente familiare e noto, eppure è dotato di una perturbante estraneità: non sospettavamo che ci apparisse tanto lontana, ignota e inesplorata una zona così interiore, così nostra.

Le puntuali ambientazioni geo-topografiche dei racconti e il situare in un contesto architettonico preciso i personaggi del suo teatro ci danno una misura dell’esattezza scientifica con cui Cechov delinea la struttura psichica di ciascun soggetto che non ha nulla di psicologistico o di intimistico (le sue rappresentazioni sono prive di quell’arbitrio auto-referenziale che l’ideologia tecnicistica di discipline quali medicina e psicologia già dalla fine dell’800 dettavano e oggi ci impongono sempre più) ma viene di continuo cimentata con le coordinate materiali(stiche) dell’esistenza individuale e collettiva: pur con accenti critici o ironici in tutta la sua opera compaiono le istituzioni come la municipalità, la scuola, gli ospedali, la vita matrimoniale con l’aggiunta/precisazione che: “La vita bisogna rappresentarla non così com’è, e nemmeno come deve essere, ma come ci appare nei sogni” .

Il matrimonio e le figure della clinica: Psicosi, Nevrosi, Perversione.

Le figure femminili del dramma sono quattro: oltre alle tre sorelle andrà analizzata anche quella di Natasa, moglie di Andrej, che fa loro da contrappunto.

Le tre sorelle stanno a rappresentare, in quanto figlie di un generale dell’esercito, una delle principali tematiche dell’opera: il rapporto tra la continuità della vita (il generare figli) e il dissolversi, spinta all’annientamento e alla distruzione presente nel soggetto che, nel prevalere, determina i tipici “destini cechoviani”. Nessuna delle tre sorelle ha sposato un militare e l’unico soldato sposato, il capitano Versinin, ha una vita coniugale infelice: ”Quando rinasco non prendo moglie. No, no, non la prendo più”. Dunque la questione del matrimonio – in quanto istituzione esterna e dato psichico – non può essere elusa nè liquidata, salvo metempsicosi.

Matrimonio e guerra fanno sì che le tre sorelle si tengano a una cauta distanza dalle varie figure di soldato. E’ a partire da questi sintomi di inibizione nevrotica della donna (paura ma anche cimento) che la guerra fa problema e diverrà, chissà, forse possibile individuare forme di disagio della civiltà che consentano di intraprendere consapevolezza e riequilibrio per l’individuo e la società.

Curiosamente Natasa sposa Andrej il quale nel secondo atto ammetterà: “Non bisogna sposarsi, sposarsi è una malinconia”. Andrej ha rinunciato alla carriera militare a favore di quella illusoriamente accademica e Nataša elude la contraddizione amore/guerra, scavalcandola perchè troppo interessata a praticare (piuttosto che a farla propria o indurre a rifletterci) azioni di conquista brutale e sbrigativa (di natura bellica) nella vita privata.

Descrizioni tanto rigorose del profilo soggettivo di ciascun personaggio – Cechov è un testimone attendibile della vita – consentono l’operazione di assegnare le quattro figure femminili alle tre tipologie di struttura psichica: psicosi, nevrosi, perversione.

Nessuna delle quattro donne appartiene alla psicosi (malattia mentale) nel senso in cui lo è, strutturalmente, l’Ivan Dmitric di Reparto 6 o lo diventerà il dott. Andréi Jefimic provenendo da una condizione di nevrosi.

Olga e Irina pagano il prezzo di un adattamento normale e perciò nevrotico alla realtà e alla vita sociale attraverso un grado di inibizione per ciascuna diverso che a Olga, prima sorella e rigida portatrice della tradizione paterna e familiare, depositaria di ricordi che la immobilizzano, impedisce di amare e di sposarsi e che obbliga Irina, terza delle sorelle, ad aderire, passiva e ingenua, alle illusioni nutrite dalla sorella maggiore risolvendosi per una non-scelta: il matrimonio con il barone Tuzenbach che non ama. Ripiego che la mette al riparo dal cedere a un personaggio, Solenyj, perfetto esempio della terza categoria psichica, la più temibile: la perversione. Solenyj, il quale inibito non è, adempirà al suo proposito:”Giuro su quel che ho di più sacro: un rivale lo ammazzo… Com’è bella!”.

Il perverso (in senso strutturale può definirsi tale anche colui che non manifesta alcuna deviazione sessuale) non ha dubbi dinanzi alla sua meta, nè inceppi nè impacci, egli non esita a strumentalizzare l’altro o a disfarsene come accade a Natasa che pure potremmo annettere a questa categoria.

Masa possiede tendenze perverse e incestuose ma anche per lei la struttura psichica è quella della nevrosi.

Le tre protagoniste provano sentimenti, sopportano angosce e attese con piena umanità, posseggono un mondo vivo e vario, eppure Olga non riesce a vivere il presente, Irina non ricorda il passato, Masa non vivrà il suo amore in futuro.

La cosa di maggior interesse è come Cechov riesca a far funzionare le tre sorelle nel loro insieme, quasi accomunate da un’unica missione che non è solo la propria sopravvivenza: nessuna di loro ha figli, ma salvare qualcosa del mondo da cui provengono e, al contempo, riuscire ad andare avanti, altrove: a Mosca, lontano da dove la milizia del padre le ha condotte, poter immaginare un domani, di più, costruire un avvenire per tutti.

Esse sanno, credono pervicacemente.

Al contrario Andrej ha figli/o ed ha tentato di emanciparsi dal modello paterno ma non gli è bastato l’unico scarto compiuto nel campo della scelta professionale, altra da quella militare paterna, su cui non ha insistito forse perchè privo di un supporto adatto, un fratello, un mentore, un ideale concreto mentre gli si rivela pernicioso Ferapont.

(segue)


V. Cechov, Teatro, Oscar Mondadori, Mi1ano, 1982, Introduzione p.XVI: “Non è così che le ragazze scelgono la rivoluzione…” gli obiettò lo scrittore Veresaev, vicino ai movimenti rivoluzionari, a proposito del racconto La fidanzata, cosicchè Cechov tagliò inesorabilmente quel passaggio, perchè “non corrispondeva alla verità dei fatti e del personaggio”. Anche se “letto oggi quel brano ha in sè una sua aspra verità e diventa profezia”. Lo stesso rigore che permette a Cechov di rimproverare Tolstoj “di parlare di cose che non conosceva”. *

All’affermazione scespiriana espressa da Konstantin nel Gabbiano (v. Cechov, Teatro, 1982, Mondadori, p.11) Nina

replica: “C’è poca azione nel vostro lavoro. (…) Poi non c’è amore. Per me in un dramma ci dev’essere

assolutamente l’amore”. L’amore – al pari della guerra cui l’accomuna l’elemento del moto – sfugge al lavoro del rappresentare. I grandi e sconvolgenti movimenti che amore e guerra impongono li fanno decadere di continuo dalla sfera della rappresentazione e rientrare in quella del rimosso. Amore e guerra: corpi in movimento, corpo e movimento. E’ per questo che l’arte è chiamata incessantemente a occuparsene.

Dal Glossario in “Il Cefalopodo” 4, p.99, cito: “STRUTTURE PSICHICHE E FIGURE DELLA CLINICA: dalla scoperta del “luogo della fobia”, scelta e determinazione nella formazione delle strutture psichiche, variazioni, borderline e diversificazione dai sintomi e un’ulteriore collocazione”.

Sulla perversione si veda in Glossario, op. cit., la voce omonima, p.98.

Una psicoanalisi a più dimensioni: molteplice e erratica

L’identità soggettiva possiede una ricchezza legata alle tradizioni della cultura classica e coinvolta nelle vicende delle interazioni dettate dagli strumenti tecnologici.

Pratico una psicoanalisi attivamente ingaggiata nello studio dei rapporti soggetto-tecnologia.

La cura si presenta come un’occasione di estendere le proprie dimensioni di vita e di pensiero.

Il sapere della medicina e quello della psicologia non sono più sufficienti a fornire risposte a disagi mutanti.

Lo psicoanalista  tiene conto dell’evoluzione di tecniche psicologiche e dell’uso di psicofarmaci potenti, ma ritiene che le trasformazioni dei soggetti – di per sè vorticose e imprevedibili – richiedano una posizione inventiva che apra a nuovi spazi negoziali nella natura e nella società.

Una psicoanalisi a più dimensioni offre a chi le si rivolge – paziente, analizzante o allievo – possibilità di avanzare nella ricerca, acquisendo ulteriori orizzonti e curando quanto prima neanche si riusciva a individuare né a diagnosticare.

Possibile pensare a una cura accurata?

L’intervento di cura, nel linguaggio comune, rimanda alla terapia medica. Mentre un’accezione aggiornata e più rigorosa della “cura” deve rinviare a un’osservazione/registrazione di tipo antropologico.

Un’antropologia psicoanalitica permette di unire la dimensione individuale del soggetto (la sua appartenenza di origine e le sue scelte culturali) con la dimensione dell’incontro, del dialogo e dell’attenzione ai fenomeni naturali, sociali e civili.

La tecnologia si sovrappone alle forme della rappresentazione artistica: metodo e sostanze sono, infatti, comuni. L’arte della cura attinge allo strumento tecnologico, ne disegna il profilo e ne limita il raggio d’azione.

EVENTO FORMATIVO: SEI LEZIONI DAL TITOLO “MUTAZIONI DEL RICORDO” PITTURA, LETTERATURA, FOTOGRAFIA E CINEMA: LA PSICOANALISI COME MODELLO DI COMPOSIZIONE

VENERDI’ 24 APRILE ALLE ORE 19 VI LEZIONE DEL CICLO “MUTAZIONI DEL RICORDO”: PHILIP K. DICK, SAMUEL BECKETT, GABRIELE FRASCA, FORME DEL FUTURO PRESENTE

Il prossimo evento formativo si svolgerà a Pistoia alla Libreria-Galleria d’arte-sala da thè Lo spazio dell’Ospizio VENERDI’ 24 APRILE ALLE ORE 19 VI LEZIONE SU PHILIP K. DICK, SAMUEL BECKETT, GABRIELE FRASCA, FORME DEL FUTURO PRESENTE