LOGICHE E PROCEDURE DELLA CONSULENZA PSICHIATRICO/PSICOLOGICA IN MEDICINA ESTETICA

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Estratto del capitolo pubblicato su “Trattato di Medicina Estetica” di A. IOSSA FASANO, A. PIGNATARO, S. TOTO


“Sono solo i superficiali a non giudicare dalle apparenze”

Oscar wilde

L’immagine corporea, dalla science fiction alla scienza medica e psicologica,  si afferma oggi in uno scenario di epocale svolta che si cercherà qui di delineare, sviluppando le conseguenti riflessioni sulle condotte pratiche che gli specialisti in Medicina Estetica possono adottare.

In cosa consiste la svolta epocale? Nel passaggio dell’identità umana da una condizione protesica a una configurazione cyborg. Transizione al contempo drammatica (traumatica) e affascinante (coinvolgente e sconvolgente) con cui ciascun soggetto – il medico come il paziente – si trova a fare i conti.  Un apparato psichico (nell’accezione di psiche o di mente) lavora in parallelo allo sviluppo di abilità motorie, delle relative rappresentazioni e delle trasformazioni che le interazioni producono. Verrà qui posta particolare attenzione alle forme esteriori del soma e alle azioni rivolte ad agire su di esse.

L’osservazione del soggetto umano e delle relazioni che stabilisce con l’ambiente esterno va estesa ai dispositivi che utilizza o di cui dispone. E’ possibile finalmente pensare a un apparato psichico che non sia metafisico, né invisibile, né interno, ma che sia proteso nell’ambiente e interagente nello spazio materiale. L’organismo fisico diviene il primo stadio in cui la psiche stabilisce un collegamento tangibile e regolabile, grazie ad ausili protesici, con varie dimensioni e mondi.  Mentre si immaginava la psiche come qualcosa di etereo e di immateriale, ecco il rovesciamento di posizioni per cui è proprio l’ausilio protesico a rinviare all’apparato psichico e si afferma l’idea che non ci sia psiche se non laddove ci sia un senso di mancanza che faccia appello alla protesi. Dunque identità protesica come fondamento di un soggetto pensante e portatore di passione. Il nesso che unifica mente e corpo va individuato negli oggetti, utili e inutili, di cui l’uomo si circonda, alcuni dei quali si innestano direttamente sugli organi sensori e motori (pensiamo da un lato agli occhiali, alla dentiera, all’apparecchio acustico, all’arto meccanico, alla cosmetica e dall’altro a un orizzonte molto avanzato come il ricorso alla farmacologia di sintesi, ai trapianti d’organo e alla chirurgia estetica o ricostruttiva).

Come soggetti moderni siamo insediati in una condizione psico-fisica di ordine protesico, ma la post-modernità contemporanea ci costringe all’ibridazione con strumenti tecnologici di tipo cibernetico che oltrepassano le nostre facoltà percettive e sfuggono alle ordinarie capacità di rappresentazione: sopravviviamo al prezzo di non riconoscerci. Rispetto al componente cibernetico e alla conseguente configurazione cyborg ci sembra di accettare consapevolmente qualcosa che, invece, scompagina le fondamenta del nostro essere e del modo in cui rappresentiamo il corpo proprio e altrui. Mutano i modi di soffrire e di ammalarsi, devono aggiornarsi i metodi per curarli. L’arte di ritoccare il corpo aveva una sua importanza già nel Cinquecento, per riparare ferite da guerra o asportare tumori: il suo uso era circoscritto a una finalità puramente ricostruttiva; oggi il più delle volte la ricostruzione viene effettuata per un piacere estetico piuttosto che per una reale necessità e le motivazioni che spingono alla scelta di rivolgersi ad un medico estetico, secondo la letteratura analizzata in merito, sono prevalentemente psicologiche.

La Medicina Estetica nella contemporaneità nasce dall’intuizione che l’uomo è sano solo quando è in armonia con le differenti fasi della vita, con il proprio inserimento sociale e ambientale. Oggi la medicina è sempre più sollecitata da pazienti che chiedono di migliorare il proprio aspetto, l’equilibrio e l’armonia complessiva per una ricerca di sicurezza personale, ma anche una necessità professionale o un’esigenza spirituale.   Si tratta, dunque, di collocare la Medicina Estetica nell’area più appropriata all’interno di una necessariamente nuova concettualizzazione del: “Chi siamo? Chi sono? Come e di cosa è fatta la mia identità? Io, in quanto medico, quale identità contribuisco a costruire nell’altro?” Un risultato ottimale può essere realizzato grazie al coordinamento e all’integrazione delle più diverse attività specialistiche, dunque attuando una collaborazione multidisciplinare avvalendosi di tutte le acquisizioni della medicina generale, delle conoscenze delle scienze esatte, della chirurgia e di alcune specializzazioni (medicina interna, endocrinologia, dietologia, dermatologia, angiologia, ortopedia, fisiatria, chirurgia plastica…), e degli apporti di numerose discipline umane tra le quali la psicologia, l’antropologia e la filosofia. Per agire a tutto campo, rispettando la qualità della vita, dunque interpretando al meglio quanto l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dichiara da anni “la salute deve essere considerata non come assenza di malattia ma come benessere psicofisico”, essa deve interagire con individui sani, armonici, che vivano compiutamente la propria età e sappiano riconoscersi e accettarsi, che lavorino con impegno per migliorarsi e riescano a stimarsi ed amarsi di più. Questa è la filosofia alla quale dovrebbe essere educato chi si rivolge alla Medicina Estetica.  La Psicologia e Psichiatria sono intimamente correlate alla Medicina Estetica se si accetta l’assunto epistemologico di un’unità mente-corpo.  Lo “scalpello” di cui il medico si serve per i suoi interventi di correzione estetica, non modifica soltanto l’aspetto fisico di una persona, ma ne cambia anche l’animo, l’immagine che questo individuo ha di se stesso, l’identità che fino a quel momento si era costruito. L’immagine dell’ “io” è una sorta di ritratto mentale che ciascuno ha di se stesso e questo ritratto è costruito in base alle personali esperienze passate e all’aspetto del corpo così come viene percepito dal singolo e come si pensa che lo riconoscano gli altri. Questa immagine dell’io condiziona inevitabilmente il nostro modo di essere e di rapportarci con l’esterno e di questa situazione il medico estetico deve tenere conto, non solo per aiutare il paziente a comprendere quelle eventuali “cicatrici emotive” che sono spesso alla radice della richiesta di una correzione medico-chirurgica, ma anche per valutare modi e tempi dell’intervento.

Il pensiero si struttura secondo un processo formativo non solamente verbale

BRANO TRATTO DA Il colorepensiero del soggetto psicotico in Ambulatorio/Il piccolo Hans N° 1/1999, Moretti & Vitali, Bergamo.

Marco, dodicenne, va male a scuola: è indisciplinato, scadente nel profitto e, nonostante l’insegnante di sostegno e le cure psicologiche, ne combina di tutti i colori. Molteplici sono le difficoltà che hanno incontrato genitori, educatori e terapeuti nel comprenderlo e nell’aiutarlo.

Dopo due anni e mezzo di psicoterapia, al posto di un paventato esordio schizofrenico, Marco muta stile di relazione e parla degli interessi che concretamente coltiva: giardinaggio e orticoltura, astronomia, personal computer e soprattutto l’arte figurativa moderna. Viene attratto dalla possibilità con due “sbaffi” o tre segni di comporre quadri del valore di decine di milioni.

Lui, così segnato da traumatismi comincia a pensare che quei segni possono non attaccare l’apparato psichico, né depositarsi più sul suo corpo o su quello altrui, ma sulla tela attraverso tecniche raffinate e consapevoli.

In seduta si dicono poche ma essenziali parole, si disegna e si dipinge, nessuna interpretazione. Il terapeuta osserva l’aprirsi di Marco alle forme della natura: piante, animali, costellazioni in rapporto a cui reperire le coordinate della propria posizione nel mondo e in un contesto civilizzato che Marco va ormai riconoscendo, ma che ancora non riserva un posto per lui.

La terapia analitica, che comincia a dare i primi frutti, gli consente di scongiurare la deriva psicotica: si tratterà di comporre il disegno del progetto attraverso cui conferire forma alla propria esistenza soggettiva, realizzarne realmente la costruzione e riuscire finalmente ad abitarla.

A distanza di dieci anni dal termine del trattamento, Marco fluttua tra una regione del Centro-Italia e la casa dei suoi….

UN INCESTUOSO CHE MANGIA E UNO CHE NON MANGIA: IL CIBO IN CENTRO CITTA’ E LA BIBLIOTECA SOMMERSA

ARTICOLOPUBBLICATO SU IL PICCOLO HANS  83-84

Riviere, / bastano pochi stocchi d’erbaspada / penduli da un ciglione / sul delirio del mare; / o due camelie pallide nei giardini deserti, / e un eucalipto biondo che si tuffi / tra sfrusci e pazzi voli / nella luce…

E. Montale

 

 

Fa la cameriera in un villaggio turistico che più volte ricorrerà nei suoi sogni, è addetta a servire nei poco frequentati tavoli periferici del ristorante all’aperto.

Nell’analisi intrapresa poco oltre una selva di dietologi, dermatologi e ginecologi, Xenia, un’adolescente di 17 anni, si interroga sulla scomparsa del ciclo mestruale e sui violenti accessi di fame in rapporto con l’essere al centro dell’attenzione, degli sguardi, di un dato luogo e, come vedremo, della città.

E’ nel letto dei genitori “dove” (1) nota sulla propria pelle delle macchie che un pensiero del sogno attribuisce all’esposizione al sole. Al risveglio le viene in mente la parola “pedagogia”.

Associando scopre che il walk-man le serve non tanto ad ascoltare musica quanto a ripararsi, girando in città, dai commenti degli uomini al cui centro si sente posta. Ma come fare a ripararsi, a non ascoltare i seducenti consigli di “cura” di amiche ed esperti?

Il sogno ha lavorato riconducendo la causa delle macchie sulla pelle alla loro fonte: i raggi paterni. Eppure non può esserci discorso altrui – la pedagogia delle terapie mediche o delle psicoterapie confezionate ad hoc per l’adolescenza – a esprimere questa verità.

La concretezza carnea in un’atmosfera da “pane selvaggio” e la materialità di fatti e sintomi si tramutano nella forma macchia. La sua pelle appare come il lenzuolo del letto matrimoniale dei genitori. Non è questione di viscere ma di superficie epidermica dove passa, disegnandosi, il discorso analitico; è lì che si traducono i termini della sua condizione di malessere. Ora diviene possibile smettere di ascoltare musica, amiche ed esperti.

Si trova su di un aereo al centro del quale c’è un suo compagno di corso che fa da modello; per disegnarlo in sogno deve avvicinarsi ma c’è un errore e non riesce a “riprenderlo”. Si alza e, piuttosto che osservarlo meglio, lancia attraverso una fessura una bottiglia che in seduta interpreta come simbolo di alcolismo.

Alle prese con una conflittualità già sul terreno (o è in volo?) genitale che si esprime in chiari termini alimentari, deve sbarazzarsi del rischio, nient’affatto scongiurato, di un vizio tossicomanico/anoressico (la bottiglia) cui la sua grande abilità nel disegno la espone con l’eliminare “ogni separazione tra sapere e agire” (2).

Il prezzo sembra alto: solo se l’abilità viene meno il vizio può essere abbandonato. Non riuscire a “riprendere” il modello al centro dell’aereo assume un doppio significato: un inciampo nel saper fare, nel ritrarlo (nel riprenderlo come con una cinepresa) e, ciò che è dello stesso ordine, evitare di ricalcare il modello di sua madre, la quale aveva chiesto alla propria madre di aiutare  finanziariamente il genero, futuro padre di Xenia, senza esigere da lei prestiti in favore del suo fidanzato.

La mancata rimozione nel saper disegnare, scelto come professione, può aver comportato particolare sensibilità in Xenia alle tematiche del rapporto inconscio tra cibo e figura paterna, senza d’altro canto precludere altre rimozioni foriere di costruzioni simboliche.